Negli scritti di Miroslav Krleža, romanzi, drammi, poesie e saggi, il fango pannonico è un topos ossessivo. Si colloca nella periferia croata, sempre eguale a se stessa, sempre oggetto di vessazioni, anche dopo il tramonto dell’impero austriaco. In questo luogo senza tempo, il fango è una creazione della natura che assume il ruolo di paradigma, paragonabile a un evento sine qua non. Il fascino della narrazione di Krleža tuttavia non può trarre in inganno. Anche se il fango funge da simbolo metastorico della stagnazione sociale, che attraversa qualsiasi ordine diacronico senza scalfitture, le sue conseguenze sono imprevedibili. A ravvivare il paradosso concorrono gli oggetti e gli ambienti della quotidianità creati dall’uomo: un cappello stiriano, le bettole fumose, il pavé di piazza San Marco a Zagabria. A loro volta questi sono gli indicatori dell’autorappresentazione mediata da un populismo bifronte e settario. Ma palesano anche le aspirazioni a un’arte nazionale senza precedenti, libera da compromessi con la politica, nell’ambito di un dibattito aspro nato nella sinistra durante gli anni Trenta del secolo scorso. La sconcertante sequela di situazioni grottesche, la labile condizione dei subalterni pronti alla ribellione, o incapaci di fuggire dal fango, sono il teatro nel quale si consuma l’esperienza anarchica, espressionista e nondimeno modernista di Krleža, intellettuale croato, jugoslavo, soprattutto europeo.